Il monumento visto dalla Via Appia. Sullo sfondo la Chiesa di S. Maria della Stella
Come
abbiamo visto fu Alba Longa la vera progenitrice di Roma.
Da Alba
Longa, fondata da Ascanio/Iulo, figlio del troiano Enea, arrivarono i gemelli
Romolo e Remo: questo secondo la leggenda più elegante, grecizzante.
Secondo altra tradizione Alba Longa preesisteva a tali fondatori: già abitata dall’antichissimo popolo dei Siculi, fu occupata dagli Aborigeni del re Latino che solo in seguito si fusero coi Troiani originando, appunto, il popolo Latino.
Secondo altra tradizione Alba Longa preesisteva a tali fondatori: già abitata dall’antichissimo popolo dei Siculi, fu occupata dagli Aborigeni del re Latino che solo in seguito si fusero coi Troiani originando, appunto, il popolo Latino.
Durante
il regno di Tullo Ostilio sarà la figlia Roma, divenuta troppo potente, a
distruggere la città madre (metropoli) sino a dissolverne persino le vestigia.
Oggi è
discussa la posizione reale dell’antica Alba Longa; secondo Dionigi di
Alicarnasso sorgeva fra il lago d’Albano e il Monte Cavo (Vulcano Laziale).
A ogni
modo è qui, nel Latium Vetus, che originano i più risalenti miti della nostra regione e,
perciò, di Roma stessa.
Il
territorio su cui sorge l’attuale cittadina d‘Albano Laziale (al XV
miglio della Via Appia) è immerso, quindi, in tale magma protostorico.
Uno dei
monumenti che più colpiscono e affascinano anche l’occhio del profano è il
cosiddetto sepolcro degli Orazi e dei Curiazi, posto lungo l'Appia, poco
prima dell’altura che separa Albano da Ariccia.
Ricordiamo
il celeberrimo episodio della disfida degli Orazi e Curiazi nelle parole di Tito Livio (Ab urbe condita, I, 24-25):
"Per puro caso in entrambi gli eserciti c'erano allora tre
fratelli gemelli non troppo diversi né per età né per forza. Si trattava degli Orazi e dei Curiazi, ormai tutti lo
sanno visto che è uno degli episodi più noti dei tempi antichi … I re
propongono ai tre gemelli un combattimento nel quale ciascuno si sarebbe
battuto per la propria città: alla parte vittoriosa sarebbe toccata anche la
supremazia ... i gemelli, come era stato convenuto, si armano di tutto punto. Da
entrambe le parti i soldati incitavano i loro campioni ... Viene dato il segnale e i sei giovani, come battaglioni opposti
nello scontro, si buttano allo sbaraglio con lo spirito di due eserciti interi.
Né gli uni né gli altri si preoccupano del proprio pericolo, ma pensano
esclusivamente alla supremazia o alla subordinazione del proprio paese e alle
sorti future della patria che loro soli possono condizionare. Al primo contatto
l'urto delle armi e il bagliore delle lame fecero gelare il sangue nelle vene
agli spettatori i quali, visto che nessuna delle due parti aveva avuto la
meglio, trattenevano muti il respiro. Ma quando poi si giunse al corpo a corpo
e gli occhi non vedevano solo più fisici in movimento e spade e scudi branditi
nell'aria, ma cominciò a grondare sangue dalle ferite, due dei Romani, colpiti
a morte, caddero uno sull'altro, contro i tre Albani soltanto feriti. A tale
vista, un urlo di gioia si levò tra le fila albane, mentre le legioni romane,
persa ormai ogni speranza, seguivano terrorizzate il loro ultimo campione
circondato dai tre Curiazi. Questi, che per puro caso era rimasto indenne, non
poteva da solo affrontarli tutti insieme, ma era pronto a dare battaglia contro
uno per volta".
Il sepolcro visto da Via della Stella
"Quindi, per separarne l'attacco, si mise a correre pensando
che lo avrebbero inseguito ciascuno con la velocità che le ferite gli avrebbero permesso. Si era già allontanato un po'
dal punto in cui aveva avuto luogo lo scontro, quando, voltandosi, vide che lo stavano inseguendo piuttosto
sgranati e che uno gli era quasi addosso. Si fermò aggredendolo con estrema violenza e, mentre i soldati albani urlavano ai
Curiazi di correre in aiuto del fratello, Orazio aveva già ucciso l'avversario e si preparava al secondo duello.
Allora, con un boato di voci - quello dei sostenitori per una vittoria insperata -, i Romani presero a incitare il loro campione
che cercava di porre presto fine al combattimento. Prima che il terzo potesse sopraggiungere - e non era tanto lontano -,
uccise il secondo. Ora lo scontro era numericamente alla pari, uno contro uno; ma lo squilibrio risultava nelle forze a
disposizione e nelle speranze di vittoria. L'uno, illeso ed esaltato dal doppio successo, era pronto e fresco per un terzo
scontro. L'altro, stremato dalle ferite e dalla corsa, si trascinava e, una volta davanti all'avversario eccitato dalle vittorie,
era già un vinto, con negli occhi i fratelli appena caduti. Non fu un
combattimento. Il Romano gridò esultando: 'Ho già offerto due vittime ai mani
dei miei fratelli: la terza la voglio offrire alla causa di questa guerra, che
Roma possa regnare su Alba'. L'avversario riusciva a malapena a tenere in mano le
armi. Orazio, con un colpo dall'alto verso il basso, gli infilò la spada nella
gola e quindi ne spogliò il cadavere. I Romani lo accolsero con un'ovazione di
gratitudine e la gioia era tanto più grande quanto più avevano sfiorato la disperazione.
I due eserciti si accingono alla sepoltura dei rispettivi morti con sentimenti
molto diversi, in quanto gli uni avevano
adesso la supremazia, gli altri la sottomissione a un potere esterno. Le tombe
esistono ancora, esattamente dove ciascuno è caduto: le due romane nello stesso
punto, più vicino ad Alba, e le tre albane in direzione di Roma e con gli
stessi intervalli che ci furono nello scontro".
La
tradizione secondo cui il monumento fu sepoltura dei cinque eroi (cinque,
infatti, sono i coni che partono dalla base) origina nel XVI secolo, a
opera del geografo Leandro Alberti nella sua monumentale ricognizione del
territorio italiano (Descrittione di tutta Italia, 1551) e persistette
tenace sino all’Ottocento, quando le evidenze archeologiche subirono un’indagine
più meticolosa.
Sarà
il grande indagatore della campagna romana, Antonio Nibby, a porre in risalto
le ultime parole del resoconto liviano, ove si evince che, se la morte dei
primi Orazi avvenne nei pressi di Alba, quella dei Curiazi albani trovò luogo più
vicino a Roma, dove l’ultimo Orazio era fuggito per applicare la sua astuta
tattica (Nibby suppone il tumulo degli Orazi fosse a circa 5 miglia da Roma, e, perciò, a dieci da Alba).
Lo
studioso fa propria la tesi di un altro dotto, Emanuele Lucidi (Memorie
storiche dell’antichissimo municipio ora terra dell‘Ariccia), secondo cui il
monumento fu edificato dalla famiglia degli Azzii o Attii (nel I secolo a. C.,
in età tardo repubblicana), in memoria del loro capostipite Arunte, figlio del re
etrusco Porsenna, ucciso nella battaglia di Ariccia in uno scontro fra Etruschi da parte e Aricini e Cumani dall'altra.
Ci
soccorre Livio (Ab urbe condita, II,
14):
"Abbandonata la guerra con Roma, Porsenna, per non dare
l'idea di aver portato le sue truppe invano in quella zona, invia il figlio
Arrunte ad assediare Aricia con parte dell'esercito. Sulle prime l'attacco
senza preavviso paralizzò gli abitanti di Aricia. Poi però, ricevuti rinforzi
dalle tribù latine e da Cuma, acquisirono una tale fiducia nei propri mezzi che
osavano affrontare il nemico in campo aperto. Lo scontro era soltanto agli
inizi quando gli Etruschi sferrarono un attacco talmente poderoso da
sbaragliare gli Aricini al primo vero urto. Le coorti venute da Cuma, opponendo
la tattica alla forza bruta, operarono un lieve scarto laterale e si lasciarono
superare dai nemici che avanzavano disordinatamente; quindi, tornando sui
propri passi, li assalirono alle spalle. Così gli Etruschi, rimasti presi tra due fuochi, furono fatti a pezzi nonostante ormai
avessero quasi in mano la vittoria. I pochissimi superstiti, privi del loro
comandante e di un qualsiasi rifugio più vicino, si trascinarono fino a Roma,
disarmati e nelle condizioni e nell'aspetto tipici dei supplici. Furono accolti
benignamente e ospitati qua e là presso privati. Una volta rimessisi in sesto, alcuni tornarono a casa e riferirono l'accoglienza
fraterna ricevuta. Molti invece rimasero a Roma, per l'affetto che li legava
alla città e ai loro ospiti. Il quartiere, che venne loro assegnato perché vi
abitassero, in seguito prese il nome di Vico Etrusco“.
Ricostruzione del Mausoleo di Porsenna
Lo stile etrusco dell’edificio fu già notato dal sommo incisore
Giovanni Battista Piranesi, che notò le rassomiglianze stilistiche del sepolcro albanese con quello
di Porsenna, così descritto da Plinio (Storia naturale, XXXVI, 19; Plinio, in tal caso, cita Varrone):
"Il re venne sepolto presso la città di Chiusi, in un luogo
in cui ha lasciato un monumento di forma quadrata fatto di blocchi di pietra
squadrati: ogni lato è lungo trecento piedi e alto cinquanta. All’interno di
questa pianta quadrata si sviluppa un labirinto inestricabile, costruito in
modo tale che se qualcuno vi si introducesse senza un gomitolo di filo non
riuscirebbe più a ritrovare l’uscita. Al di sopra di questa base quadrata si
elevano cinque piramidi, quattro angoli e una centrale che sono larghe alla
base settantacinque piedi [m. 22,2] e alte centocinquanta [m. 44,4]; come coronamento hanno sulla
punta un disco di bronzo e un unico baldacchino ricurvo che si sovrappone a
tutte e cinque e alla quale stanno appese, rette da catene, delle campanelle
… al di sopra di questo disco stanno quattro piramidi alte ciascuna cento piedi [circa 30 metri],
e sopra di esse un’unica piattaforma con cinque piramidi“
Recentemente l’archeologo Coarelli ha proposto una soluzione
molto più perspicua: il sepolcro sarebbe stato edificato dalla gens Arruntia,
famiglia d’antichi natali etruschi con possedimenti in Ariccia, in ricordo del loro antenato ivi caduto.
Catacombe di San Senatore
Di fronte al monumento si trova la chiesa parrocchiale di
Santa Maria della Stella (il nome deriva da una stella che orna il manto della
Vergine, effigiata in un dipinto alle spalle dell‘altare).
Sotto alla chiesa (ricca di un cimitero storico comunale)
sono le catacombe di San Senatore, che, a loro volta, sorgevano su un’area templare
dedicata al dio Esculapio.
Da notare, come ultima curiosità, che uno dei due cognomen
della gens Arruntia è Stella.
Il poeta Publio Papinio Stazio saluta un Lucio Arrunzio Stella all'inizio delle sue Silvae ("Statius Stellae suo salutem"), dedicandogli, inoltre, un carme (epitalamio) in occasione delle nozze con la moglie Violentilla.
Il poeta Publio Papinio Stazio saluta un Lucio Arrunzio Stella all'inizio delle sue Silvae ("Statius Stellae suo salutem"), dedicandogli, inoltre, un carme (epitalamio) in occasione delle nozze con la moglie Violentilla.
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